Con l’odierna Festa del Papà, abbiamo l’occasione di fare qualche considerazione sulla paternità e, più in generale, possiamo prenderci del tempo per riflettere sulle relazioni che viviamo, costruiamo e perdiamo nella nostra esistenza.
Ognuno di noi ha fatto l’esperienza della genitorialità. Come figli e figlie di qualcuno, ci sentiamo parte di una storia. Siamo in un processo di costante fluire, in una catena di trasmissione della vita. Non importa se abbiamo ricevuto cose buone o cattive dai nostri genitori; non importa se si sono presi cura di noi con la massima dedizione possibile o se ci hanno ignorato: è un fatto che siamo tutti figli dei nostri genitori.
Ed è un fatto che, crescendo, diventare adulti significa anche che abbiamo scelto di seguire (o meno) le impronte di coloro che ci hanno preceduti, adattando la loro esperienza alle nostre situazioni reali, accettando, rinnegando, migliorando suggerimenti, ispirazioni e modelli.
In un certo senso, al di là dei legami familiari e della condivisione dello stesso corredo genetico, ognuno di noi può facilmente affermare che in realtà siamo figli e figlie di molte più persone rispetto ai nostri genitori.
Un insegnante, una nonna affettuosa, una zia amorevole, un’amica, un collega, un professore, uno scrittore, un filosofo morto 2400 anni fa, uno spot, un film, una moda…
La Festa del Papà pone enfasi su una domanda che non avrà mai fine: “Chi sono io”? Emerge la questione e l’esigenza di definire chiaramente le nostre radici e la nostra identità.
Una delle tentazioni della nostra vita è credere che la nostra identità coincida con i nostri ruoli sociali. In realtà, siamo molto più di questo.
Certo, possiamo vivere il nostro essere figli, fratelli, sorelle, mariti, mogli, colleghi, studenti, insegnanti, sempai, kohai, cinture nere, cinture bianche, come un ruolo. Ma perderemmo di vista il tesoro nascosto che questo giorno aiuta a rivelare di nuovo: la possibilità e la capacità, per tutti, in ogni momento, di far fluire ed emergere la vita, di rivitalizzare ogni situazione che si attraversa, di rendere i rapporti fecondi e vivi.
Non i rapporti che vorremmo. Quelli che la vita ci mette di fronte.
Spesso sosteniamo che “siamo uno”. Ci fa sentire molto universali. Ci fa sentire anche molto aikidoka.
Pratichiamo una disciplina che può aiutare a percepire l’umanità come un’intera famiglia. In più, tra di noi vi sono alcuni che credono nelle fedi che affermano che siamo tutti figli e figlie di un Padre celeste misericordioso.
Ma, se rinunciamo al nostro dovere di trasmettere la vita in ogni gesto, in ogni parola, in ogni relazione, falliamo il nostro dovere essenziale ed esistenziale.
Non siamo più figli, non siamo più padri, madri, sorelle, fratelli. Il nostro credo è vuoto, la nostra pratica è un tentativo schizofrenico di indossare un’altra maschera. L’ennesima che ci separa da capire chi siamo e chi siamo chiamati ad essere.
Spesso regrediamo nell’individualismo.
Al contrario, siamo tutti chiamati ad un livello superiore. Riconoscere la nostra paternità come una missione, come lo scopo della nostra vita.
So bene che tutte queste affermazioni possono sembrare un tentativo più o meno consolatorio e patetico di razionalizzare tutte quelle situazioni in cui la vita ci porta qualche sofferenza. Tutti noi sperimentiamo situazioni dolorose in cui le relazioni non funzionano come vorremmo. In cui la vita è tutt’altro che un fluire lineare.
E alcune persone – tra cui il sottoscritto- che pur desiderandola, non ricevono dalla vita il privilegio di poter sperimentare la genitorialità fisica, potrebbero alla fine dirigersi in una sorta di “rifugio mentale”: un surrogato di paternità offerto dal pensiero che comportarsi da genitori nelle situazioni quotidiane, che in qualche modo porta alla negazione della frustrazione, del dolore, semplicemente ignorandolo.
Noi siamo persone che hanno scelto una via.
La nostra pratica, la nostra umile pratica quotidiana sul tatami, ci fa crescere solo se abbracciamo la verità tutta intera. Quella che si trova dietro ogni caduta, ogni tecnica che è andata storta, ogni dolore, ogni difficoltà.
Accettare e includere quanto la vita offre è l’innesco per una tecnica migliore, l’evento che sblocca la capacità di rialzarsi ancora e ancora e ancora. In una parola, la chiave per trasmettere la vita è accettare di attraversare la sterilità. Sterilità dentro di noi, sterilità nell’incapacità di relazionarsi col prossimo, sterilità nel riconoscere i propri limiti umani, tecnici, culturali,…
C’è qualcuno, nella nostra storia personale, che incarna per noi quel concetto di umanità che vorremmo diventare e che vorremmo diffondere.
C’è qualcuno, nella nostra storia personale, che ci ha affascinato per la forza che ha vissuto attraversando tutti i problemi e tutte le bellezze che la vita gli offriva.
Ecco, questo è il modello di padre che la nostra esperienza ha riconosciuto ed eletto come tale.
Come le tracce di stelle che segnano la notte testimoniando lo spazio esterno e più profondo, siamo chiamati a far risplendere la luce delle nostre vite. Trasmettere e comunicare la bellezza della vita.
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